Vin santo del Chianti: dalla leggenda all’imbottigliamento

L’antenato del Vin santo del Chianti viene nominato per la prima volta agli inizi del Cristianesimo, probabilmente per identificare un vino utilizzato durante la messa. Una leggenda dice che nel 1348, anno della peste, un frate domenicano lo utilizzasse per alleviare i dolori dei malati. Ecco perché divenne ‘santo’. La tesi principale fa risalire il nome Vin santo al 1439, quando si tenne un concilio ecumenico a Firenze, da Papa Eugenio IV, per riunificare la Chiesa di Oriente e quella di Occidente dopo lo scisma. Fu organizzato un banchetto dai Medici e su un servizio passito: il Cardinal Bessarione, vescovo di Nicea, disse, ‘Hoc Xanthos est’. I partecipanti assimilarono la parola ‘Xanthos’ all’aggettivo ‘sanctus’, santo. Per altri, il nome deriverebbe dal ciclo di produzione di questo vino, da sempre legato alle festività del calendario liturgico cristiano.

Il Vin santo del Chianti è Doc dal 1996, prodotto a partire da uve bianche e a volte rosse, appassite, attraverso un processo di disidratazione e una lunga maturazione in botti di legno. Secondo il Disciplinare, deve invecchiare almeno tre anni nelle botti, dove fermenta con numerosi cicli stagionali. Nella versione ‘Riserva’, questo procedimento dura almeno quattro anni. Le uve bianche autoctone più utilizzate sono il Trebbiano Toscano e la Malvasia bianca lunga del Chianti. Per legge, devono raggiungere almeno il 70 per cento del blend; a volte, vengono assemblate con altre uve locali come il San Colombano o il Canaiolo bianco o il Sangiovese, che non può comunque superare il 30 per cento nella versione classica.

Se il blend supera il 50 per cento di Sangiovese, il prodotto viene denominato come Vin santo Occhio di pernice doc.

Dopo la selezione dei grappoli in pianta, quelli scelti vengono raccolti manualmente in piccole cassette e trasportati nella Vinsantaia, luogo chiuso dell’azienda, solitamente ben posizionato e ventilato. I metodi di appassimento sono due: lasciare distese le uve su un intreccio di stuoie o appenderle a dei sostegni. L’importante è che circoli l’aria intorno ai grappoli. Questa disidratazione, che inizia a settembre, può durare dai tre ai sei mesi. Terminato l’appassimento, i grappoli vengono ispezionati perché non rimangano frammenti di raspo, chicchi rotti o ammuffiti, polvere e impurità, poi spremuti delicatamente. Il mosto approssimativamente è da un terzo a un quarto del peso dei grappoli, concentrato di zuccheri.

Alla fine di una parziale decantazione, il mosto viene messo nei caratelli, disposti nel medesimo ambiente di appassimento. Questi fusti di legno solitamente hanno capacità piccola (tra i 50, 70 e 100 litri), spesso sono molto vecchi e sono composti da essenze di castagno, ciliegio, acacia, gelso e, solo in piccola parte, rovere. I caratelli vengono riempiti fino all’orlo e sigillati con cemento. Il freddo esterno rallenta la fermentazione alcolica, il calo la risveglia.

Raggiunto il limite di anni, come da disciplinare di produzione, i caratelli vengono strappati e i prodotti assaggiati per verificare gusto e qualità. Alcuni avranno gusto secco o semi secco, altri dolce o semi dolce. Alcuni ancora potranno aver subito ammuffimento del prodotto o essere evaporati. Dopo il completamento del blend, il vino può essere travasato, filtrato, decantato nuovamente e imbottigliato come ‘Vin santo del Chianti doc’, vino dell’ospitalità e dell’amicizia toscano

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