Il Tavolo degli Atc della provincia di Piacenza ha chiesto all’Assessore regionale all’Agricoltura, Alessio Mammi, di poter anticipare il periodo di prelievo del cinghiale in forma collettiva alla terza domenica di settembre, prolungandolo di un mese nella parte invernale della stagione. Questo perché la braccata, ad oggi, è la forma di caccia al cinghiale che garantisce i maggiori prelievi nella zone collinari e montane della provincia di Piacenza.
“Appoggiamo la richiesta – commenta Filippo Gasparini, presidente di Confagricoltura Piacenza – e ce ne facciamo portavoce. Cogliamo l’occasione di tornare a chiedere immediatamente un piano di abbattimento, come Confagricoltura lo ribadiamo insistentemente a tutti i livelli”. Se la malattia si estendesse e le “zone rosse” si diffondessero in aree a maggior vocazione suinicola, a farne le spese sarebbe anche l’export verso l’UE. Pur applicando il principio di regionalizzazione, se l’area chiusa interessasse zone a forte produzione di suini, questi sarebbero inutilizzabili anche per l’export sul mercato interno. Le più esposte a rischio sono le produzioni DOP come coppa, salame e pancetta. A livello nazionale il comparto suinicolo impiega circa 50.000 lavoratori e vale 11 miliardi di euro tra valore della produzione agricola e fatturato industriale: oggi interamente a rischio.
“Occorre un cambio di marcia – spiega Gasparini – più risorse e meno burocrazia per consentire una celere e agevole attuazione delle misure, soprattutto, chiediamo la conduzione su base continuativa e costante dell’eliminazione della fauna selvatica in maniera selettiva: abbattimento o cattura, senza se e senza ma e ulteriori semplificazioni per l’abbattimento in azienda con il supporto, ovviamente, dei cacciatori che devono poter intervenire con le squadre. I dispositivi di legge oggi sono subdoli perché sembra che nell’impostazione generale consentano gli abbattimenti, mentre nell’applicazione e nella gestione degli enti interessati c’è un concorso di clausole e cavilli che di fatto vanificano l’intenzione che dovrebbe avere la norma e l’efficacia dello strumento, impedendo l’eradicazione e dunque la soluzione del problema con uno sbarramento fatto ad arte di tempi autorizzativi, orari, procedure, tipo di proiettile, tipo di dotazione: una serie di vincoli per i quali ci si chiede quale sia la motivazione. È una garanzia? Per chi? Ci si perde in uno sterile dibattito sul tipo di caccia mentre tutti i tipi caccia dovrebbero essere consentiti per concorrere al raggiungimento dell’obiettivo. Il tutto porta ad un insuccesso, oggi gravissimo, anche per gli impatti sanitari. Un Paese sano non giochicchia nella confusione tra i vari interessi e non perché lo diciamo noi, ma lo dice la nostra storia.
Torniamo dunque a chiedere un vero e proprio piano di abbattimento, con il coinvolgimento dei cacciatori e lo stanziamento di risorse, sulla stregua di quanto attuato dalla Repubblica Ceca che è riuscita così a eradicare la Psa. Dobbiamo smetterla col dire che la situazione è sotto controllo, considerazione chiaramente insostenibile anche alla luce dei recenti fatti di Roma. Cerchiamo l’equilibrio mettendo sul campo tutti i fattori: le attività umane vanno preservate non danneggiando le specie, in questo momento la specie non solo non è minacciata, ma è a minaccia di sé stessa perché non è sana e lo Stato a cui appongono gli animali selvatici non sta intervenendo adeguatamente. Non c’è più tempo, la Psa sta prendendo terreno, gli allevamenti suinicoli sono sotto scacco con una spada di Damocle che è da un lato sanitaria, dall’altra commerciale; gli agricoltori vedono i raccolti devastati e le persone sono sempre meno sicure a causa di branchi di cinghiali che provocano incidenti, invadono parchi e vie cittadine”.