Smart working: Aur, imprese hanno storto il naso

Le misure di contenimento della pandemia mondiale hanno costretto le aziende italiane a riorganizzare il lavoro internamente, con specifiche misure di gestione del personale per assicurare lo svolgimento del lavoro in sicurezza e per tamponare il calo delle attività dovuto al contrarsi della domanda.

L’Agenzia Umbria Ricerche ha ripreso l’indagine Istat fatta sulle imprese umbre con più di tre addetti. Da giugno a novembre 2020. Bene, 78 imprese su 100 hanno adottato cambiamenti più o meno estesi per la gestione del personale. Un dato di molto inferiore al 93 per cento venutosi a creare tra marzo – aprile, quando il lockdown fu improvviso e più esteso.

Nella seconda metà del 2020, c’è stato il massiccio ricorso a Cassa integrazione, Fondo Integrazione Salariale e Fondo Solidarietà Bilaterale Artigianato. Hanno adottato questi strumenti quasi la metà delle imprese umbre contro il 42 per cento nazionale. Nella scorsa primavera, aveva fatto ricorso a queste soluzioni il 73 per cento delle imprese della regione contro il 63 per cento di quelle italiane. Il calo di Cig e similari ha fatto aumentare dal 7 al 22 per cento la quota di lavoratori che hanno fatto sapere di non aver apportato modifiche nella gestione del lavoro.

Con frequenza minore, sono state adottate altre misure nella gestione del lavoro: riduzione delle ore lavorate o dei turni del personale (24 per cento), obbligo di attingere a giorni di ferie (21 per cento), mancato rinnovo di contratti a termine o precari (3,7 per cento). Stabile, nei due lockdown, il ricorso al rinvio di nuove assunzioni (11 per cento). Da segnalare, poi, in alcuni casi la rimodulazione dei giorni di lavoro (16 per cento), l’introduzione del lavoro a distanza (9 per cento), l’aumento delle ore e dei turni di lavoro (2 per cento). Rispetto alla primavera, le imprese son tornate a privilegiare la rimodulazione del lavoro in presenza a scapito dello smart working, adottatissimo invece in primavera. Una quota di aziende ha deciso poi di reagire investendo sul capitale umano, attivando la formazione aggiuntiva del proprio personale (14 per cento), assumendo nuovi addetti (5,6 per cento).

Sul lavoro a distanza, lo smart working, c’è da dire che in particolare nel settore privato ci sono molte situazioni che non permettono questo tipo di soluzione. Per quattro imprese su cinque, in Umbria e in Italia, la natura dell’attività rende impossibile il lavorare a distanza e, ove sia possibile, interessa solo quote minoritarie del personale. Se durante il primo lockdown in Umbria si contava il 17 per cento di imprese che avevano adottato lo smart working, contro il 21 per cento nazionale, appena si è potuto tornare al lavoro in presenza, in molti hanno abbandonato la pratica iniziale, tornando indietro.

In molti imprenditori hanno risposto come il lavoro agile abbia addirittura danneggiato il lavoro. Un quinto delle imprese ha dichiarato un calo di produttività, il 30 per cento la diminuzione dell’efficienza nella gestione dei processi produttivi, il 27 per cento un aumento dei costi operativi. Appena il 9 per cento delle imprese ha risposto che c’è stato un aumento di produttività, così come una maggiore efficienza produttiva. Un 14 per cento ha dichiarato una diminuzione dei costi operativi. E dal punto di vista dei lavoratori? Il 38 per cento delle imprese ha avuto un miglioramento del benessere lavorativo, un 45 per cento ha segnalato la diminuzione della relazionalità interpersonale. In generale, c’è stato un aumento degli investimenti in tecnologie e formazione da chi ha utilizzato il lavoro in remoto.

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