Marche, disoccupazione femminile: è la peggiore regione del Centro

Il mondo del lavoro per le donne marchigiane resta chiuso, tanto che la regione è la peggiore del Centro Italia per percentuale di lavoratrici disoccupate. I dati Istat, rielaborati dalla Cgil, si riferiscono al secondo trimestre del 2019.

L’occupazione femminile si è fermata, rimanendo sostanzialmente stabile rispetto allo stesso periodo dell’anno passato, ma il numero delle lavoratrici dipendenti è sprofondato a 210 mila unità, vale a dire 10 mila in meno rispetto al 2018 (-4,5%); discesa molto più ampia rispetto ai colleghi lavoratori dipendenti, che comunque hanno perso un 2,4%. Solo nel commercio troviamo un dato stabile per le donne nel mondo del lavoro, per il resto perdite su perdite: industria manifatturiera (-7,1%) servizi (-4,7%), agricoltura e costruzioni.

Questi primi dati fanno capire quanto è grave la situazione e come conseguenza abbiamo un aumento delle donne che cercano un impiego: 33 mila, +12,6% rispetto allo stesso periodo di dodici mesi prima. Il tasso di disoccupazione femminile arriva al 10,7%, il più alto delle regioni centrali dove, peraltro, le donne in cerca di un lavoro sono di meno dell’anno scorso. Daniela Barbaresi, segretarie generale della Cgil Marche, ‘legge’ così la situazione: “Numeri che preoccupano e che si sommano a quelli di vecchie diseguaglianze dure da superare tra donne e uomini su lavoro. Nei giorni scorsi, il consiglio regionale ha fatto l’importante scelta della doppia preferenza di genere: una scelta che dà valore e sostanza alla democrazia paritaria. Ora, Istituzioni, forze sociali ed economiche uniscano le loro forze per costruire un Paese a misura di donne”.

Ancora Barbaresi: “Le donne, anche nella nostra regione, continuano a fare i conti con un lavoro
che non c’è, o è un lavoro instabile, precario o comunque di bassa qualità che si accetta per mancanza di alternative. Lavori con orari sempre più ridotti, anche a poche ore la settimana, con
part-time troppo spesso involontari che rendono parziali anche paghe e diritti”. La numero uno della Cgil regionale aggiunge: “Questi numeri vanno aggiunti a quelli delle tante, troppe lavoratrici madri che lasciano il lavoro alla nascita di un figlio: l’anno scorso nelle Marche sono state 866: dunque, ogni 12 bambini che nascono c’è almeno una lavoratrice che lascia un lavoro stabile, spesso costretta a una scelta obbligata per le difficoltà che incontra sul lavoro o per la mancanza di una rete adeguata di servizi accessibili e sostenibili economicamente. Ad esse si sommano le tante lavoratrici precarie per le quali un figlio significa spesso non veder rinnovato il contratto di lavoro”.

Barbaresi spiega: “Si parla tanto di conciliazione tra tempi di vita e lavoro, ma spesso lo si fa in modo retorico e declinandolo solo al femminile, finendo per riportare le donne a casa ad accudire figli e genitori anziani. Intanto, in questi anni, abbiamo assistito al proliferare di bonus di ogni genere: bonus bebè, bonus nido, bonus mamme, ovvero politiche di monetizzazione dei bisogni che hanno finito per sottrarre risorse necessarie a garantire un sistema adeguato di welfare. In sostanza, le priorità sono due: affermare la cultura della condivisione delle responsabilità familiari tra uomini e donne e garantire una rete adeguata e strutturata di servizi, da quelli per l’infanzia a quelli per anziani e non autosufficienti”.

Ammette: “Part-time, lavoro precario e carriere interrotte per il lavoro di cura sono solo alcuni dei fattori che contribuiscono agli enormi divari retributivi tra donne uomini, tanto che nelle Marche le donne percepiscono mediamente 15 mila euro lordi l’anno, ovvero 7 mila euro in meno rispetto agli uomini, pari al 32% in meno: dunque, a oltre 40 anni dalla legge sulla parità sul lavoro c’è ancora tanto da fare perché il vero valore delle donne sul lavoro venga effettivamente riconosciuto. Per questo è necessario che la contrattazione, da quella nazionale e decentrata, sociale e territoriale, ponga al centro le reali condizioni di vita e di lavoro, l’organizzazione del lavoro, il riconoscimento di competenze e professionalità, la retribuzione e la necessaria ricomposizione del lavoro sempre più discontinuo e parziale e anche un sistema di welfare adeguato. Perché si possa costruire un Paese a misura di donne”.

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