La reputazione trasferisce valore economico all’azienda

Maurizio Lombardi

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La reputazione? Un ammasso informe di idee, credenze, “sentito dire”, informazioni più o meno vere, che si incrociano tra loro, si contraddicono, confermano e smentiscono in continuazione, fino a quando quelle più “forti” e “rilevanti” si sedimentano nel tempo e si rafforzano creando un quadro di “senso” complessivo, per quanto approssimativo e in perenne mutamento.

Detto così, ci sarebbe ben poco da dire sulla reputazione.

Chi è convinto di questo, smetta pure di leggere.

Però, un ultimo sforzo costui dovrebbe farlo. E’ nel suo interesse.

Perché?

Perché reputare è giudicare.

I giudizi rappresentano la materia prima della reputazione, e, come tutti i buoni imprenditori, dovremmo accertarci della qualità delle materie prime che costituiscono il nostro prodotto più importante: “noi”.

Noi con tutto ciò che rappresentiamo: famiglia, azienda, lavoro.

Non occuparsi della propria reputazione è un rischio che consiglio di non correre in un’epoca in cui, grazie al web, i giudizi si formano e diffondono ad una velocità supersonica, sfuggendo al nostro controllo e riducendo le nostre capacità di intervento.

Prendersi cura della propria reputazione oggi è divenuto vitale e non riguarda solo la nostra sfera personale.

Sentiamo parlare sempre di più di “reputazione aziendale” o corporate reputation, cioè quell’insieme di valutazioni prodotte dai cosiddetti “portatori di interesse” (stakeholder), gruppi e persone, interne ed esterne all’organizzazione, che più “contano” per un’azienda: azionisti, clienti, consumatori, fornitori, banche, rappresentanti di istituzioni locali, cittadini del comprensorio dove si opera, dipendenti e collaboratori esterni, lobbies e gruppi di potere.

Qual è l’aspetto che differenzia la reputazione di un individuo da quella aziendale?

Il “valore economico”.

Per un’azienda o un’organizzazione qualsiasi che sta sul mercato, godere di un’ottima reputazione offre dei vantaggi straordinari.

Se fossi un’imprenditore con quell’azienda che gode di ottima reputazione vorrei stringere accordi commerciali.

Se fossi un neolaureato ci vorrei collaborare e lavorare.

Se fossi una banca vorrei averla come cliente.

Se fossi un’azienda che ha bisogno dei suoi prodotti vorrei averla come fornitore.

E per ottenere ciò, sarei disposto anche ad abbassare le mie pretese economiche, perché i fattori di rischio sarebbero ridotti in partenza, la diffidenza drasticamente abbattuta, e potrei scendere a compromessi che non sarei mai in grado di praticare con altri interlocutori.

Tutto ciò perché il valore da me percepito di quell’azienda è superiore a quello di altri suoi competitors e le consente di godere di un vantaggio competitivo straordinario dipendente dalla sua buona reputazione e dalla sua corretta comunicazione off e on line.

I risultati per l’azienda?

Maggiore potere contrattuale nei confronti di fornitori e banche, grande livello di attrazione per i talenti che desiderano lavorarci, ottimi rapporti con le istituzioni locali, fiducia dei consumatori, facilità nel penetrare in nuovi mercati, politica commerciale da leader, caratteri distintivi più evidenti rispetto a quelli degli altri competitors, grandi capacità di gestire situazioni di crisi.

La reputazione aziendale crea continuamente “valore economico” per l’azienda, si forma nel tempo ed è una “assicurazione sulla vita” (aziendale): noi siamo oggi quello che siamo sempre stati ieri, ed è probabile che, per quegli altri soggetti che ci giudicano, per gli influencer e gli stakeholder, lo saremo anche in futuro. Qualsiasi cosa negativa accada, crisi, difficoltà di mercato e così via.

Le valutazioni degli stakeholder (e degli “altri che contano” per noi) sul comportamento passato dell’azienda offrono una base valutativa fondamentale anche per quelle future: rappresentano dei veri e propri “teoremi” per un giudizio che di scientifico ha ben poco.

Ma attenzione: non sono garanzia di “buona reputazione” a vita se queste valutazioni non le alimentiamo con una altrettanto “buona” e costante comunicazione.

La “probabilità” di avere o no una buona reputazione, qualunque cosa accada, di positivo o di negativo, in futuro, dipende dalla capacità di ogni singola azienda di aver generato valore nel tempo, e averlo comunicato attraverso una immagine forte, trasparente e positiva in grado di affrontare ogni fattore di rischio reputazionale, sia esso un inquinamento involontario di un suo stabilimento o di un suo prodotto avariato che finisce sugli scaffali di un Supermercato.

Esso dipende essenzialmente dalla capacità di aver comunicato correttamente questo valore, perché il valore si genera nel tempo e con una serie di azioni, all’interno e all’esterno dell’azienda, ma non può prescindere da un’operazione fondamentale: il comunicarlo correttamente e costantemente ai propri influencer e stakeholder.

Sempre, e non solo nelle situazioni di crisi.

Nella cosiddetta “economia della reputazione”, dove alla dimensione fisica si aggiunge quella digitale, anche la corporate reputation deve tener conto di queste due facce della stessa medaglia, fisico (materiale) e digitale (immateriale), trasferendo tutto all’unica voce di bilancio che conti: quella del “valore economico” dell’azienda.

Fisico più digitale, fattori materiali più fattori immateriali, rappresentano dunque un unicum di realtà vera e propria, basata non più su elementi distinti e separabili, bensì sugli effetti che tutti questi elementi, ognuno nella propria dimensione, hanno nella formazione del rating di cui “gode” una persona, un’azienda, una istituzione.

Questo rating si erige oggi ad elemento di giudizio e di previsione: mi dice chi è e (probabilmente) come si comporterà in futuro il singolo “oggetto di reputazione”.

Nell’economia della reputazione noi tutti lottiamo ogni giorno, con il nostro singolo comportamento e con la comunicazione di questo “buon” comportamento, per aumentare il nostro rating nei confronti di soggetti terzi che ci giudicano ed agiscono di conseguenza a questo giudizio.

E per un’azienda, godere di un buon rating, significa di stare sul mercato con prezzi superiori a quelli dei competitors (la reputazione funziona da premium price), di accedere al credito bancario con più facilità, di approvvigionarsi di materie prime, tecnologie e risorse umane in maniera più agevole.

In situazioni critiche, il buon rating funge da anticorpo nei confronti di quella selezione naturale che fornitori e finanziatori attuano per difendersi da danni generati da mancati introiti e pagamenti.

Per un’azienda in tempi di crescita o di crisi, tutto fa reputazione, tutto fa rating e tutto, identità fisica e digitale, fattori materiali e fattori immateriali, fa “valore economico” da spendere sul mercato.

… purché si comunichi. Sempre. E bene.

(di Maurizio Lombardi)

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