I derivati? In Italia meno che nel resto d’Europa

L’autorità bancaria europea, come riporta sul suo sito la Cgia di Mestre, ha diffuso alcuni dati molto interessanti relativi al sistema delle banche europee. È emerso che nonostante l’uso dei derivati sia sceso in un anno (marzo 2015-marzo 2016) dal 15,2% al 12,9%, molte banche continuano a ricorrere a questi strumenti finanziari, spesso all’insaputa dei clienti stessi.

I derivati sono stati al centro dello scandalo che ha portato alla crisi finanziaria del 2008, prima negli Usa e poi nel resto del mondo. Sono strumenti piuttosto delicati, utilizzati dalle banche per ottenere profitti più alti; inevitabilmente la strategia che è alla base dei derivati è di tipo speculativo, in quanto si scommette sull’andamento di alcune variabili di attività sottostanti a quella principale, come il prezzo di materie prime o altre attività finanziarie.

Regno Unito (chissà con la Brexit cosa cambierà su questo versante) e Germania fanno la parte del leone nel “regno dei derivati”. L’autorità bancaria europea ha stimato che i valori dei derivati si aggirano sul 20% del totale attivo delle banche inglesi e tedesche. Dati più confortanti per l’Italia, dove appena il 5% dell’attivo viene impiegato in strumenti derivati.

Va detto, per onestà e completezza di informazione, che i derivati non sono in sé uno strumento “spazzatura”, anzi molti analisti continuano a sostenere che siano necessari in un’economia finanziaria che fa del rischio uno dei suoi must. Eppure quando l’incidenza di questi prodotti supera una certa soglia, scatta un segnale di allarme. Senza considerare che un’elevata quota di derivati va di frequente a scapito del credito. In Germania infatti l’incidenza dei prestiti è del 56% sul totale del bilancio contro una media UE del 64% (in Italia è il 68%).

In Italia dunque il rischio maggiore è sul fronte dei prestiti concessi alle imprese. Ma almeno, a differenza dei derivati, le banche conoscono i loro debitori.

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