Rapporto Eurispes: la pandemia ha messo in discussione i valori anche in Italia

L’Eurispes ha redatto e comunicato il 33esimo Rapporto Italia, diviso sostanzialmente in sei capitoli, illustrati attraverso i saggi e 60 schede fenomenologiche. Aprendo il report, il presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara, ha sottolineato: “La pandemia ha messo in discussione valori, interessi, scelte, etiche, priorità, prospettive. Ha ridisegnato alleanze, confini politici, rapporti tra Stati. Ha imposto nuovi percorsi economici e sociali. Ha messo in risalto fragilità e ritardi del sistema, inefficienze e incapacità nella gestione della complessità. Ha mostrato il fallimento delle pretese taumaturgiche delle autonomie regionali. Ma, soprattutto, ha fatto emergere la necessità di ricostruire una identità statuale compressa negli anni da una devoluzione verso il basso, le Regioni, e verso l’alto, l’Europa. Nello stesso tempo, ha archiviato l’idea che i cittadini possano sostituire efficacemente – e ad un livello etico supposto superiore – le Istituzioni politiche”.

“Il Covid è anche il salutare “scapaccione educativo” dato da un padre burbero e un po’ all’antica per richiamare il figlio scapestrato a più miti consigli e al senso di responsabilità. Un microscopico virus ha qualificato il gigantesco tema del futuro come “necessità” e imposto a tutte le generazioni l’urgenza di impegnarsi nella coltivazione di un pensiero a lungo termine. Il Paese dis-organizzato, così come è oggi, non è in grado di sostenere le sfide che la pandemia ha lanciato. Senza una pacifica “rivoluzione culturale” saremo destinati all’oblio, ad una deriva dell’esserci senza essere, alla perdita di quel tanto di identità rimasta”.

“Intanto, crescono l’insofferenza, l’insicurezza e la ricerca di un futuro possibile, ma soprattutto la richiesta di una guida sicura che liberi il Paese dall’incertezza e dall’approssimazione con le quali è stato condotto sin dall’inizio della pandemia. L’insediamento del Governo Draghi – frutto dell’incessante lavoro del presidente della Repubblica – è il segno della raggiunta consapevolezza, tra le diverse forze politiche, della gravità della situazione”.

“Istituzioni litigiose, in contraddizione o distanti tra loro diffondono un senso di sfaldamento proprio laddove, invece, dovrebbe passare la percezione di un “serrate i ranghi” a ogni livello; di qui il disagio generale, l’incertezza del presente, la paura del futuro. l’arrivo della pandemia si inserisce in un quadro di grande difficoltà di un Paese segnato da una profonda crisi economica e sociale e da una crisi demografica che assottiglia di anno in anno il numero delle nascite. Insomma, un Paese sempre più povero e sempre più vecchio che, nello stesso tempo, registra il progressivo indebolimento dei ceti medi, vera spina dorsale della democrazia”.

“Se, come diceva Shakespeare nel Giulio Cesare, ‘gli uomini in certi momenti sono padroni del loro destino’, questo è il tempo di dimostrarlo dispiegando tutta la saggezza, l’impegno, il senso civico, lo spirito di collaborazione necessari senza inutili protagonismi e mettendo da parte ogni interesse personale. Di particolare importanza sono i cambiamenti che stanno intervenendo nelle nozioni di tempo, nel rapporto tra passato, presente e futuro; come nelle nozioni di spazio, nel rapporto tra locale, nazionale, internazionale, tra virtuale e reale. Quale futuro vogliamo costruire?”.

“La costruzione degli scenari futuri va al di là di una semplice proiezione della situazione presente: richiede una visione, una idea di futuro possibile, un sistema di valori di riferimento, in sostanza un pensiero forte in grado di guidare le nostre azioni di oggi verso una direzione ben precisa. In questo senso, valgono ancor oggi gli ammonimenti di uno dei padri della programmazione strategica, Hazan Özbekhan, co-fondatore e primo direttore del Club di Roma, 1968: “Programmare non è proiettare il presente nel futuro, ma l’opposto, avere una idea di futuro da innestare nel presente”.

Vediamo ora i dati contenuti nel Rapporto. C’è fiducia nelle istituzioni, in particolare nel presidente della Repubblica, ma anche per le forze armate e di polizia. Calano invece magistratura, Chiesa e sindacati. L’operato dei presidenti di Regione divide, con prevalenza di sfiduciati, ma il 54,7 per cento chiede comunque più autonomia regionale. Non convince l’elezione diretta del capo di Stato. Aumenta il numero degli italiani che diminuiscono la fiducia nei confronti delle istituzioni: dal 24,9 per cento del 2020 al 32,5 per cento del 2021. Sergio Mattarella ottiene il miglior risultato di fiducia da quanto è presidente, il consenso è del 57,7 per cento, +2,8 punti percentuali rispetto allo scorso anno. Il Parlamento, nel 2021, raccoglie il 34,4 per cento degli apprezzamenti dei cittadini contro il 25,4 per cento del 2020. Per la magistratura, i consensi invece calano: dal 49,3 al 47,7 per cento. Il 42,6 per cento dà un giudizio positivo sul proprio presidente di Regione, gli sfiduciati arrivano al 49 per cento. Grande apprezzamento per la polizia di Stato (69,2%), per l’Arma dei Carabinieri (64,7%) e per la Guardia di Finanza (67,7%). Il 60 per cento degli italiani è fiducioso del lavoro dell’intelligence tricolore. Molto apprezzato il lavoro delle Forze armate: Esercito italiano (71,5%), Aeronautica militare (72,5%) e Marina Militare (73,6%). Larghissimi i consensi per i Vigili del fuoco (87,7%), buoni risultati anche per la Polizia penitenziaria (64,3%) e per la Polizia locale (58,2%).

Stabili i consensi per la Scuola (dal 65 al 66,5%), per la Protezione civile (da 77,8 a 77,2%), Università (70%). I Partiti sono al 27,2% contro il 26,6% del 2020. Scendono i Sindacati (dal 46,4 al 40%), così come la Chiesa cattolica (da 53,4% a 46,7%). Cresce in termini di consensi il Servizio sanitario nazionale (dal 65,4 al 71,5%). Il 50,8% dei cittadini prova sfiducia invece nei confronti dell’Europa.

L’Eurispes ha chiesto anche cosa ne pensassero i cittadini dell’abolizione delle Regioni (appena il 28,3% favorevoli). Il 54,7% chiede anzi maggiore autonomia all’Ente. Il 49,2% è favorevole all’elezione diretta del Presidente della Repubblica, il 50,8% è sfavorevole.

Per far ripartire l’economia, il 51,2% chiede un ruolo più forte da parte dello Stato, il 50,4% è favorevole a replicare, per la realizzazione delle opere pubbliche in Italia, il modello del ‘ponte di Genova’.

Ancora il presidente dell’Eurispes: “Il Pil non può crescere in un paese che invecchia e nello stesso tempo diminuisce in popolazione. L’economia per crescere ha bisogno di innovazione e della capacità di sapersi rapidamente adattare ai mutamenti imposti, di volta in volta, dal sistema globale. Un esempio tra i tanti possibili è quello del mancato ricambio generazionale nella Pubblica amministrazione. Personale, ormai per la gran parte in età, fatica quando non arranca, a confrontarsi con le nuove tecnologie e non riesce nemmeno a vedere la nuova sfida che le suddette tecnologie pongono alle Istituzioni e alla Amministrazione pubblica: quella della connessione, del dialogo fra pari, della trasparenza e orizzontalità delle relazioni”.

“Pensare di poter avviare e gestire i necessari processi di digitalizzazione con personale appartenente culturalmente alla “galassia Gutenberg”, appare come una chimera. Vengono trattenute in servizio persone giunte alla soglia della vecchiaia, motivando tale scelta con il costo eccessivo che il loro pensionamento produrrebbe a carico del sistema previdenziale, ma non si considerano i vantaggi che l’immissione di nuove leve consentirebbe sia in termini occupazionali per le giovani generazioni sia in termini sociali e demografici e anche, forse soprattutto, in termini di efficacia ed efficienza. Sul piano culturale, un Paese vecchio e tendenzialmente conservatore non innova, si accontenta di gestire al meglio possibile il presente ed esalta il passato. Sul piano economico, consuma la ricchezza prodotta dalle generazioni precedenti e mortifica e impoverisce quelle future”.

Secondo l’Eurispes, il 79,5% degli italiani avverte un peggioramento (netto 54,4%, in parte 25,1%) dell’economia italiana nell’ultimo anno. L’11,6% ritiene che ci sia stabilità, il 3,8% che ci sia stato un leggero (2,9%) o netto (0,9%) miglioramento. A sottolineare gli sconquassi creati dalla pandemia, nelle cinque precedenti rilevazioni era sempre prevalsa l’idea che ci fosse stabilità, un peggioramento veniva visto da meno della metà degli intervistati. Per il 53,4% nei prossimi dodici mesi la situazione peggiorerà. Nel 42,4% dei casi, nonostante tutto, la propria situazione economica – dicono gli italiani – non sarebbe cambiata nell’ultimo anno.
Sono diminuite, intanto, le famiglie che devono utilizzare i risparmi per arrivare alla fine del mese (376,1%, il massimo fu raggiunto l’anno scorso con il 47,7%), mentre sono cresciute quelle che dicono di arrivare senza grandi difficoltà a fine mese (44,3%, superato solo nel 2017 dal 51,7%) e di riuscire a risparmiare (27,6%). Segnali positivi, a cui fanno da contraltare il numero di chi ha difficoltà a pagare la rata del mutuo (arrivato al 38,2%) e l’affitto (47,7%). Aumentano di poco le percentuali di chi fatica a pagare le spese mediche (24,1%, +1,8%) e le utenze domestiche (27%, +1,1%).

Come si affrontano le difficoltà nei pagamenti? Il 28,5% dice di aver dovuto fare ricorso al sostegno economico della famiglia d’origine, appena il 14,8% ha chiesto aiuto ad amici, colleghi o parenti, il 15,1% ha chiesto un prestito bancario, quasi il doppio effettua i pagamenti rateizzandoli (28,7%). Un decimo del campione ha tenuto questi comportamenti: chiedere soldi in prestito a privati (non parenti o amici) non potendo accedere ai prestiti bancari (9,4%), tornare a vivere nella casa della famiglia d’origine o dei suoceri (10%), vendere/perdere dei beni (11,4%), ritardi nel saldo del conto presso commercianti/artigiani (11,8%). Il 22,4% paga le bollette in ritardo (in crescita) ed è in ritardo con la rate del condominio (18%). Il 15,4% ha accettato un lavoro pure senza contratto, il 15,1% ha svolto più di un lavoro contemporaneamente.

Sul fronte dei servizi alla persona, tra chi ha figli in età scolare, ha rinunciato all’istruzione privata il 41,1%; il 33,4% ha fatto a meno della badante pur avendone necessità. Il 22,4% ha rinunciato alle, visite specialistiche mediche. Gli italiani hanno rinunciato ad acquistare un’auto (37,3%), ma anche alle spese sulla casa (sostituzione di arredi/elettrodomestici 34,5%, riparazioni/ristrutturazioni 34,2%). Meno frequente rimandare la riparazione della proprio auto o moto (23,9%).

Fara: “Le criticità emerse hanno messo ancor più in risalto l’insieme dei segnali di malessere economico e sociale denunciati dal nostro Istituto nel corso degli anni. Le prime analisi segnalano un ulteriore impoverimento dei ceti medi che si inasprirà tra pochi mesi con lo sblocco dei licenziamenti. Ci troveremo allora a doverci confrontare con nuove forme di disagio e di conflitto sociale. Dovremo misurarci – e lo segnaliamo oggi – con una nuova, amara realtà: quella dei “conflitti di vicinato” se non, addirittura, di “pianerottolo”. Che cosa accadrà quando il licenziato del privato si incontrerà col vicino di casa dipendente pubblico che il proprio posto lo ha conservato? Avremo nuovi figli e figliastri e metteremo in moto ulteriori motivi di delegittimazione dell’Istituzione pubblica. Se, come tutti affermano, il nodo centrale è quello di far ripartire la crescita e rianimare i consumi interni, dobbiamo avere la consapevolezza che ciò non potrà avvenire se non attraverso una coraggiosa operazione di redistribuzione della ricchezza creata e di stimolo alla generazione di nuove fonti di ricchezza – dalle start up giovanili, agli investimenti diretti al Sud, al reinserimento nella filiera produttiva dei territori dell’Appennino grazie alla diffusione della banda larga e via dicendo. Un Paese imbrigliato, in ostaggio di una burocrazia asfissiante, di un sistema di regole di impronta feudale. La manutenzione ormai serve a poco perché la nostra dotazione infrastrutturale è talmente obsoleta che non vale più la pena di conservarla. Occorre demolire e ricostruire se veramente si vuole rilanciare l’economia nazionale”.

Rilancia un’idea il presidente dell’Eurispes: “Nel corso degli anni, a più riprese, abbiamo segnalato l’idea di “smontare” tutti gli insediamenti industriali ormai obsoleti e quelli nei quali è cessata la produzione. Tra i tanti, il caso di Taranto è davvero emblematico e sofferto. Salutato all’inizio come panacea dei problemi occupazionali e, nello stesso tempo, come avanguardia del nuovo sviluppo industriale del Meridione, si è rivelato nel tempo un pozzo senza fondo che ha ingoiato un numero imprecisato di miliardi di euro. Nello stesso tempo, lo stabilimento è diventato una vera e propria centrale di produzione delle patologie più diverse segnalate puntualmente dalle autorità sanitarie regionali. Se si considera che oggi l’acciaio può essere acquistato a livello internazionale a prezzi notevolmente inferiori di quelli necessari per la sua produzione a Taranto, e che in una economia globalizzata ciascun territorio dovrebbe cercare di valorizzare al meglio i propri asset e le proprie risorse, non resta che una soluzione: chiudere le acciaierie”.

“A chi prospetta l’impoverimento del territorio e la perdita di migliaia di posti di lavoro si può segnalare che esistono soluzioni alternative. Coerentemente con le strategie a lungo termine dell’Unione europea, con i Piani nazionali per l’energia e il clima e con i Piani per la riqualificazione ambientale, le stesse risorse, finanziarie e umane, impegnate per mantenere in vita lo stabilimento, possono essere utilizzate per smantellare gli impianti, bonificare il territorio e restituirlo alle sue naturali vocazioni.

“Secondo calcoli, sia pure approssimativi, occorrerebbero dieci anni circa per la prima fase, smontare gli impianti, altri dieci anni per bonificare il territorio e altri dieci anni per avviare una serie di attività alternative legate al settore del turismo, dei servizi, dell’ambiente, dell’agricoltura mantenendo gli stessi livelli occupazionali se non, addirittura, incrementandoli”.

Passiamo ad analizzare i giovani. In Italia, Germania, Polonia e Russia, quelli tra i 18 e i 30 anni sono orientati verso valori della vita che riguardano quella sociale e privata, si sentono invece lontani rispetto ai valori politici e spirituali. La generazione Covid ha dovuto studiare a lungo online, ciò ha provocato stress da isolamento, perdita di lavoro e di reddito, problemi legati a condizioni pesanti di incertezza e precarietà. I giovani italiani appaiono ‘apatici’ nei confronti dei valori, a cui in passato davano invece importanza. Netto crollo per ‘una vita onesta’ (-22,5%), rispetto della legge (-21,2%), seguire ideali, principi (-19,4%), indipendenza personale, libertà (-19%), istruzione (-20,8%).

Nonostante il virus, gli appelli delle autorità e l’enfasi dei media a proteggersi dal covid, il valore ‘salute’ ha ceduto il primo posto al valore ‘democrazia’, ovvero richiesta di giustizia nella società, diritto di poter esprimere le proprie esigenze e di essere ascoltati. La democrazia tocca il 90,6%, la salute l’85,9%, nel 2018 erano pari al 97,8%. Il valore della religione, nonostante le giovani generazioni non lo apprezzino e le chiese siano state anche chiuse per lungo tempo, è cresciuto al 38,7% del 2020 contro il 32,8% del 2018. Massimo incremento rispetto al 2018 per gli ‘affari’ (+10,4%) e la bellezza (+11,2%).

Per le giovani donne, la famiglia non è più centrale. Riconoscono come importanti l’istruzione (79,1%), la carriera (78,1%), il lavoro (81,1%), il denaro (84,8%), l’indipendenza e la libertà personale (77,5%), la libertà di parola (76,7%) l’adesione a ideali e principi (78,5%). La famiglia è al 78,4%, i figli al 78,3%.

Appena il 17,9% dei giovani italiani vuole rimanere con i genitori. In Italia, comunque, il valore resta più alto che in altri Paesi. L’82,1% vuole intraprendere una vita indipendente in futuro e ritiene che l’età ottimale per cominciare sia di 23,7 anni (valore medio), In Francia siamo al 95%, in Polonia al 90,8%, in Russia al 90,4%. La volontà di restare con i genitori è più bassa in questi Paesi (5% in Francia, 9,2% in Polonia, 9,6% in Russia). Tra i più poveri, un terzo dei giovani non vuole lasciare i genitori: siamo al 24,6% nelle famiglie a basso reddito, al 18,3% in quelle a reddito medio, al 13,8% in quelle con reddito elevato.

I giovani italiani vorrebbero 2,2 bambini, in Francia siamo a 2,0, in Polonia a 2,2, in Russia 2.0. Se si collega questa proiezione ideale alle condizioni di vita reali dei giovani, il numero crolla a 1,61 figli per donna. Anche concentrandosi solo sulle risposte dei giovani, arriviamo a 1,64 figli per donna (in Francia siamo a 1,1, in Polonia a 2,,0, in Russia a 1,5).

Secondo i giovani italiani, si raggiungere un’esistenza comoda e senza tensioni raggiungendo un reddito mensile di 2.349 euro. Nel 2020, si registra maggiore audacia nei piani dei giovani, che vedono le loro stime di reddito superiore del 40% rispetto alla media del 2019 (3.380 euro mensili). Hanno indicato una cifra pari a 4.368 come obiettivo. Le ragazze sognano meno in grande. Siamo a 4,831 euro per i giovani, a 3,878 per le giovani. I giovani che hanno partecipato all’indagine hanno già realizzato circa il 53% dei loro progetto, in 10-15 anni pensano che la percentuale raggiungerà il 76%. Nell’anno pre-crisi 2019, si partiva dal 61,9%, ma si arrivava ‘solo’ a 75,3%.

Tra le privazioni indicate nel 2020, a causa di disponibilità scarsa di denaro, il 44,3% parla dell’impossibilità di godere di un periodo di vacanza, il 23,8% ha smesso di acquistare articoli per la casa, il 22,7% di pagare le cure mediche. Il covid ha paradossalmente aumentato la fiducia nel futuro (66,1% contro 55%).

Nell’indagine del 2019, era emerso che il 57,4% dei giovani intervistati era soddisfatto del proprio lavoro, solo il 13% voleva cambiare professione o campo di attività. Nel 2020 è più che raddoppiato il numero di chi ha cambiato in modo significativo la visione del proprio futuro professionale, progettando di cambiare attività o professione. Secondo l’indagine 2020, il 30,4% ha risposto che vorrebbe apportare cambiamenti alla propria vita professionale. I motivi? Avere una propria attività, impegnarsi nell’imprenditorialità, lavorare nel campo della psicologia, delle risorse umane, del turismo, del fitness e dello sport. Il 35,2% dei giovani si concentra nella ricerca di un posto di lavoro, principalmente in un’impresa privata (23,6% contro 11,6%). Il 24,9% vuole avviare un’attività in proprio. C’è poi un 13% dei giovani che rinuncia a programmare ogni ricerca di lavoro.

Pur con un 2020 molto difficile alle spalle, i giovani indicano per l’Italia un ‘passo verso il futuro’ con valore positivo, pari a 1,81 punti, superiore all’incremento Paese del 2018, che segnava un aumento di 1,06 punti. La sfera sociale del Paese ha ricevuto, da parte dei giovani, il massimo indice di aumento nelle valutazioni relative alle prospettive future (10-15 anni) passando da una valutazione di 4,5 punti per la situazione attuale a 5,9 punti per quella futura e ponendo questo trend di miglioramento al primo posto rispetto agli altri àmbiti della vita comunitaria italiana.

Cambiano i punti di riferimento nel 2020. I rappresentanti della cultura e dell’arte sono passati dal 40,4% al 9,3%. La maggioranza dei giovani ha trovato modelli degni di imitazione tra i personaggi statali e politici (25,5% nel 2019, 40,8% nel 2020). Gli atleti sono ancora un esempio positivo, prima di tutto i calciatori (23,6%), poi gli artisti pop (20,8%), e gli scienziati (19,1%). Cresce l’esempio positivo dei rappresentanti delle imprese (10,8 dal 2%), di giornalisti televisivi e presentatori (dal 3,9 al 13,2%). Molti meno esempi positivi tra i religiosi (6,6%), ma sono tanti anche i giovani che non hanno modelli di riferimento (23,3%).

Il Presidente dell’Eurispes: “Il Covid-19 ha brutalmente messo a nudo le criticità alla base della costruzione comunitaria ed evidenziato la necessità e l’urgenza di un cambio di strategia. Nello stesso tempo, il Covid ha salvato l’Unione europea perché l’ha costretta ad intervenire su punti di acuta sofferenza dei cittadini: l’economia, il lavoro e la salute. Il Covid ha anche rimesso in discussione le logiche finanziarie che avevano guidato l’azione della Ue negli ultimi anni e ha fatto capire come l’economia e la finanza non possano essere lasciate sole a decidere del destino di popoli e nazioni, e come gli Stati, e in questo caso l’Europa, nel loro insieme possano e debbano intervenire di fronte ad emergenze epocali, ma non solo. Questa azione rappresenta una grande occasione per la Ue per recuperare reputazione, ruolo e fiducia presso i cittadini, proprio nella fase in cui questi mostravano segni sempre più evidenti di insofferenza”.

Passiamo alla fiducia nell’Europa, che oggi da parte degli italiani è bassa. C’è un grado di sfiducia pari al 50,7% infatti. Il 33,5% ritiene l’Europa fondamentale per uscire dalla grande crisi, il 51% è convinto che l’Italia sia uno Stato marginale dentro l’Ue e che subisca le decisioni altrui. Nella pandemia, per il 26% degli italiani, l’Europa avrebbe dimostrato la sua inutilità. Il 33,9% pensa che i fondi del Recovery Fund arriveranno sicuramente, ma gli scettici sono circa il 30%.

Secondo i dati rilevati nell’indagine Eurispes (2021), le opinioni degli italiani si dividono esattamente a metà rispetto alle etichette tradizionali con cui identificare i generi sessuali (uomini e donne): per il 49,2% sono ancora valide, per il 50,8% sono troppo rigide. La maggioranza degli italiani ritiene che ancora oggi esista una disparità tra uomini e donne.

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