Piano regionale di resistenza e resilienza: un altro parere dell’Aur, a cura di Sergio Sacchi

Crescita forse, sviluppo poco o nulla. In poche parole, secondo l’Aur, (Sergio Sacchi, già docente di Politica economica all’Università di Perugia) questo sarà il contributo dell’Umbria al Piano nazionale di ripresa e resilienza messo a punto dal Governo. Poco sviluppo perché sono quasi assenti riferimenti di un certo spessore e rilevanza alle implicazioni in termini di coesione sociale e culturale. Solo riferimenti fugaci e scontati. Si parla sì di sistema sociale, ma solo in virtù del milione di persone, tra cui molte attempate, e queste ultime hanno responsabilità per la bassa produttività dell’apparato produttivo, la scarsa propensione all’innovazione, il limitato tasso di natalità e pure la tenuta generale del sistema del welfare, considerato una voce di costo e non una risorsa. È scritto: “Necessità di puntare su politiche volte a contrastare il calo demografico” con l’introduzione di misure per “favorire la conciliazione lavoro – famiglie” e al fine di “incidere sulla produttività del lavoro e sostenere in generale la crescita economica della regione”.

Per quanto riguarda l’abbassamento della produttività, a un certo punto si legge della performance del settore della moda in Umbria, pari a 114,6 (a 100 c’è il valore medio nazionale per lo stesso comparto), il che significa anche che hanno bassa produttività invece le imprese di trasformazione umbre e gli altri comparti. Sono insomma efficienti sono le industrie della moda? E allora perché questo settore non merita neanche un pizzico di attenzione? Per dire: non un PUB (Polo Umbro del Bello) o una Rete dei Sentieri del Tessile (Re.Se.T.), e nemmeno un Umbrian Fashion District oppure un DeStiNo (Design per lo Stile e le Novità) Network.

L’Aur segnala come non si debba cadere di nuovo nel tranello del confezionamento di seducenti, entusiasmanti progetti scritti nel linguaggio dei bandi. Ricordiamo le passate esperienze di piani integrati nel nome, modulari nella pratica e del tutto inconcludenti nei fatti. Dai primi Centri tecnici promozionali ai Parchi, agli Incubatori, ai Poli innovativi, ai Distretti. Alcune contraddizioni restano di sicuro evidenti, come installare un qualcosa per la grafica in Valle Umbra piuttosto che nell’Alto Tevere Umbro. Come osserva il professor Diotallevi, c’è un evidente problema di controllo “coerenza delle 45 linee di intervento” umbre.

Si considerino il proposito di ristrutturare gli studios di Papigno a Terni (Miss.1; #11); quello di provvedere alla “realizzazione di opere infrastrutturali per il recupero e la funzionalizzazione di beni o siti e per il supporto di forme di fruizione specifica (sia strutture materiali che attrezzature e servizi di accoglienza, organizzazione/offerta di attività fruitive, informazione e divulgazione conoscitiva)” a beneficio della valorizzazione di beni ambientali e di beni culturali (Miss. 1; #11 e #12); il progetto di costruire “strutture ipogee da destinare alla sosta residenziale dei veicoli, in quartieri difficili da servire in modo alternativo” (Miss. 2; #19); le iniziative di riqualificazione urbana e connesse nuove politiche abitative (Miss. 2; #24); la previsione di scuole nuove per una scuola nuova (Miss. 2; #25); e gran parte, infine, degli interventi inclusi nelle “missioni” da 3 a 6. Si tratta di misure che potrebbero essere agevolmente e sinteticamente descritte in termini di metri cubi e numero di mattoni.

L’Umbria è come una casa di una famiglia monoreddito, rispetto al Paese, dove non ci sono uno spazio guardaroba o una sala per gli attrezzi da cucina, ma bisogna arrangiarsi. I progetti appena elencati, dunque, si sarebbero potuti riunire in uno scatolone, in modo da rendere evidente che si può pensare a un disegno unitario, funzionario e riconoscibile, per il modello urbanistico che ne scaturisce: edifici di civile abitazione, uffici pubblici, scuole, strutture sanitarie, arterie stradali potrebbero venire individuati da un drone in grado di sorvolare il territorio, capace di seguire e riconoscere dall’alto l’ordine di una trama intelligente e non la spregiudicatezza caotica di un assalto di stampo britannico.

Non dimentichiamo che in Umbria due sole città contano almeno 100 mila abitanti, una 55 mila. Le altre 89? Sedici hanno tra i 10 e i 40 mila abitanti, 18 vanno dai 4 ai 10 mila abitanti, le altre 55 anno meno di 4 mila abitanti (e dieci non arrivano a mille). Per rivitalizzare i borghi, da cui non scappano solo gli ultra ottantenni, non basta l’auspicio di un aumento della natalità e neanche un forte incentivo monetario.

Il cahier del documento umbro somiglia a tanti altri, ma la regione non è come tutte le altre, perciò si rischia di andare fuori tema. La crisi sistemica, vecchia della seconda metà del secolo scorso, non si risana con qualche tocco di vernice verde, green. Il rischio è che del Piano regionale per la rinascita e la resilienza alla fine non resti molto di più del semplice acronimo (Prrr).

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