Castellini, Mediacom043: “Calo demografico Umbria ha radici lontane”

“Il calo demografico in Umbria ha radici lontane”. A dirlo è Giuseppe Castellini, giornalista e direttore dell’agenzia Mediacom043. “Questa è una regione molto povera che, in passato, ha avuto bisogno anche di due interventi parlamentari. Il decollo industriale di quella leggera si è fermato a Perugia – Città di Castello e a Perugia – Foligno, Terni aveva le sue dinamiche con le acciaierie. Nel 1984 il Pil dell’Umbria era pari a 100, la crisi è arrivata nei primi anni ’90 con la crisi Iri a Terni. Il sistema economico non ha saputo riprendersi, sono andate in crisi aziende che erano campioni anche a livello nazionale e internazionale. La Perugina, per esempio, è stata venduta e, da quel momento, hai perso pezzi di valore aggiunto che la Nestlè ha fatto direttamente in Svizzera. L’Umbria ha perso realtà che erano importanti per le filiere di valore, alcune hanno chiuso e altre sono state vendute”.

Così l’Umbria cade: “Scivola verso la sub-fornitura. Morale: questa regione di tarda industrializzazione inizia a perdere quota. Oggi il Pil per abitante è l’84 per cento del Pil, sono stati persi 16 punti rispetto alla media nazionale, che pure non è andata bene. Aggiungiamo che l’Umbria, che era stata favorita dai denari pubblici, ha smesso di riceverne. Prima, infatti, una parte della regione era nella Cassa del Mezzogiorno, poi tra le zone da sviluppare, con fondi europei; crescendo, l’Umbria è uscita da entrambi i programmi. All’inizio dei Novanta ci sono state vacche magre anche per i denari pubblici. Ecco quindi l’indebolimento notevole che è lo specchio di perdita nella produttività lavorativa, oggi inferiore del 10 per cento rispetto a quella nazionale, superiore solo di sei punti alle regioni del Sud, mentre nel 1995 era ancora superiore alla media nazionale: con 101,7 punti superava la Toscana e le Marche. Nel 2000 scende a 97, sotto la media nazionale e anche peggio della Toscana. Nel 2018 è a 88,1 di produttività, inferiore di 11,9 a quella italiana, con una Toscana che è a 98 e le Marche a 94,4. Il Pil, nel 2018, è stato di 86,4. Altro dato preoccupante gli investimenti fissi lordi: tra il 2007 e il 2017, l’Umbria ha fatto -22,5 per cento dell’Italia, -20,9 per cento rispetto al Centro”.

Oggi i problemi dell’Umbria sono soprattutto quattro: pochi profitti delle imprese, retribuzioni più basse, disoccupazione in crescita e lavoro precario. “Alla grande recessione del 2009 siamo arrivati già da malati, con il 95 per cento di Pil per abitante. E continuiamo a scendere anno dopo anno. La grande crisi economica ha buttato già altri 7-8 punti di Pil. Così, Molise e Umbria si sono ritrovate a essere le peggiori in Italia. A quel punto è scattato l’allarme. La disoccupazione negli anni ’90 era arrivata al 4-5 per cento, un dato molto basso, ma a dire il vero c’era la droga della ricostruzione dopo il terremoto del ’97, capace di coprire le magagne. La gestione del post terremoto è stata buona, la Regione si è mossa molto bene, ma dopo non è rimasto nulla. Non ha aperto nessuna grossa impresa di costruzione, è rimasto tutto com’era”.

Un’altra crisi, collegata, è quella dell’Università: “Non è stata un gran volano. Ai suoi massimi è arrivata a 35 mila studenti. Non c’è stata correlazione con il territorio. Con la riforma e la concorrenza delle Università, o diventi efficiente o ti fermi”.

Tutte queste situazioni hanno creato una fuga da parte degli abitanti: “La quota di assunzioni di laureati, in Umbria, è molto inferiore alla media del Centro Italia. Il mercato da noi ha bisogno di operai, meno di specializzati. Le famiglie, però, hanno continuato a scommettere sull’istruzione dei figli, si è creato un mismatch, uno sbilanciamento non in linea tra le attese dei giovani e le possibilità che il tessuto produttivo forniva. Non abbiamo la capacità di produrre occupazione per chi si laurea, pur essendo oggi Perugia un’ottima realtà, prima nella fascia dei grandi atenei. I giovani, quindi, dopo il titolo di studio, vanno via. Su 100 persone che se ne vanno 70-75 sono giovani dai 18 ai 39 anni. Vanno all’estero o in altre regioni. Si crea il pendolarismo, con Roma e Milano città favorite. Se la media nazionale degli assunti in Italia è del 20 per cento su 100 laureati, in Umbria il dato è inferiore”.”. Il territorio è indietro anche per quanto riguarda la mobilità: “E’ stata messa qualche toppa con il treno veloce Perugia – Milano. Ma il modo slow di essere dell’Umbria non è sufficiente, bisogna essere più innovativi. La E45 non è una cattiva strada, però dipende dai volumi di traffico. Non siamo messi bene neanche nei collegamenti con le Marche, anche se con la Quadrilatero oggi si viaggia discretamente per Ancona. Bisognerebbe probabilmente ammodernare la superstrada, l’autostrada servirebbe se si completasse il progetto Venezia – Ancona – Civitavecchia”.

Il declino è stato graduale: “Quasi non ce ne siamo accorti fino alla grande recessione”. Servirebbero “ammortizzatori sociali, il welfare non dovrebbe essere orientato solo per le pensioni, ma in Italia è la famiglia che si mobilita per trovarti il lavoro e questo è un grosso limite. Non c’è coesione sociale, ognuno pensa per sé. All’estero succede l’opposto. I servizi sono concepiti in modo che ci pensi la famiglia, ma intanto il mondo va avanti e i giovani vivono sempre di più come i loro coetanei europei”.

Altro tasto dolente è l’occupazione femminile: “Prima della pandemia eravamo al 50,1 per cento, oggi siamo scesi sotto il 50. Siamo i penultimi in Europa, solo la Grecia fa peggio con il 48,8 per cento. La media europea è ben superiore, al 66 per cento. Anche questo è un ritardo spaventoso che ci penalizza nel Pil. Se quelle donne che sono a casa a fare le casalinghe andassero a lavorare, magicamente il Pil si moltiplicherebbe”.

Eccoli, quindi, i dati demografici: “In Umbria dal 2012 al 2019 abbiamo avuto 10.514 cittadini italiani che sono andati all’estero, mentre 3.966 sono quelli che sono tornati. In sette anni, dunque, abbiamo perso 6.548 persone, quasi mille per anno. Chi è tornato, non dimentichiamolo, solitamente è meno qualificato di chi è partito. Se ne sono andati 5.542 persone tra i 18 e i 39 anni, un po’ più della metà del totale. Sono rientrati in 1.439. Il saldo è dunque di 4.103. Brutto segnale, questo, perché chi parte a questa età lo perdi definitivamente e sono persone in piena efficienza lavorativa. Compresi gli stranieri, siamo passati da 7-800 a 2.600-2.700 persone che lasciano l’Umbria”. Castellini lancia l’allarme: “Si sta creando un buco enorme nella fascia 25-40 anni. Tra il 2009 e il 2019, l’Italia ha perso il 19,1 per cento di popolazione in questa fascia d’età. Da 13 milioni e 722 mila del 2009 siamo scesi a 11.103 mila nel 2019. In Umbria il calo è stato del 21,9 per cento, si sono perse 43.500 persone in questa fascia. Dai 198.640 del 2009 siamo arrivati a 155.143 nel 2019. Piemonte e Val d’Aosta hanno fatto peggio, Lazio e Campania sono le regioni che meglio si sono comportate. Abbiamo un problema generazionale”.

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