Smart working: l’indagine dell’Ires Toscana

Lavoratrici dei call center con la paura di essere remotizzate a vita, lavoratrici bancarie che non hanno retto allo stress della traduzione in excel di ogni minima pratica lavorativa, insegnanti che hanno lavorato molto oltre l’orario di lavoro pur di mantenere vivo il rapporto con i loro studenti. E ancora: lavoratrici costrette a ricorrere agli psicofarmaci, lavoratrici del pubblico che si sono impegnate per capire come recuperare il ritardo della pubblica amministrazione nell’opera di digitalizzazione. Consulenti di servizi che hanno proposto novità per gli schemi di lavoro di sportello, sindacaliste preoccupate che le donne perdano i guadagni acquisiti in termini di autonomia e libertà, tornando a occuparsi di lavoro a casa.

Quelle appena riportate sono storie racchiuse nello studio ‘Lavorare da casa durante la pandemia. Donne e smart working in Toscana. Uno sguardo in soggettiva’, messo nero su bianco dall’Ires Toscana, centro studi della Cgil regionale. L’esigenza improrogabile che fa capolino dallo studio è che lo smart working deve essere oggetto di contrattazione regolamentata tra sindacato a imprese. Niente stress per il lavoro aumentato non pagato. Viene fuori anche un’altra cosa importante: l’acquisizione di nuove competenze e la possibilità di spalmare la pressione lavorativa.

Lo studio è stato formato dalla ricercatrice Sandra Burchi: nella prima parte si affronta il mare magnum delle norme, nella seconda c’è l’indagine qualitativa con una prima analisi dell’impatto del ‘lavoro agile’ sulla vita e sul lavoro delle lavoratrici toscane. L’analisi è stata effettuata realizzando un focus group presso le Camere del Lavoro dei dieci capoluoghi toscani. Sono state dunque sentite più di 50 donne, lavoratrici del pubblico e del privato e sindacaliste.

Dalida Angelini, segretaria generale Cgil Toscana, dice: “Lo smart working può rappresentare un elemento positivo con ricadute anche sul benessere della comunità, si pensi solo alla riduzione dell’inquinamento. Tuttavia è importante la sua regolamentazione attraverso gli strumenti della contrattazione. Si può dunque sostenere questa modalità di lavoro a patto che vengano rispettati i diritti, venga garantito il diritto alla disconnessione, non si accentuino le disuguaglianze, soprattutto di genere, e si risolva il problema della totale copertura della rete”.

Barbara Orlandi, responsabile Coordinamento Donne Cgil Toscana, aggiunge: “Spesso la convivenza casa/lavoro si è rilevata faticosa. E’ bene che si comprendano le condizioni indispensabili affinché si costruisca un’autonomia lavorativa che può favorire, in alcuni momenti della propria vita, la conciliazione ma a condizione che valga per tutti e per tutte. Diversamente, potremmo rischiare una nuova ‘involontarietà’. Tant’è che, la storia recente ha dimostrato, che anche il part time era sponsorizzato come opportunità di conciliazione, peccato che poi sia divenuta una modalità sempre più diffusa e proposta solo alle donne al punto che oggi si contano oltre due milioni di donne che lavorano in part time involontario”.

Gianfranco Francese, presidente Ires Toscana, spiega: “Questa ricerca-indagine, di carattere descrittivo qualitativo, fa emergere in modo molto chiaro dalla viva voce di un numero significativo di donne toscane come, aldilà degli inglesismi e dell’urgenza dettata dalla necessità di dare una risposta immediata all’emergenza sanitaria, la questione vada affrontata fuori dalla retorica e dall’enfasi spesso eccessiva e poco disinteressata di questi mesi per porla sul terreno di una diversa possibile organizzazione del lavoro e di una necessaria rivendicazione negoziale e collettiva. La ricerca si pone sul terreno dell’ottica di genere andando a scandagliare nella quotidianità e nel vissuto di molte donne delle più disparate condizioni soggettive e lavorative per narrare le contraddizioni reali e le possibilità che potrebbero aprirsi se si guardasse veramente al tema del ‘lavoro agile’ dal punto di vista della conciliazione tempi di vita e di lavoro”.

Ecco poi l’indagine di Burchi: “C’è una forte ambiguità della definizione di smart working. Intanto c’è il problema della volontarietà: poca condivisione delle decisioni, regolamenti inadeguati, criteri di accesso e recesso improvvisati e molto segnati dalle inadeguatezze dei contesti, spesso sul piano della digitalizzazione” Che prosegue: “L’organizzazione del lavoro sperimentata negli scorsi mesi, dal presentarsi della pandemia, non è smart. Riorganizzare il lavoro su scala individuale è molto impegnativo in ordine alla spesa di tempo, aumenta la disponibilità verso compiti, impegni, orari non prestabiliti. Questa riorganizzazione non è visibile, il tempo per riadattare il lavoro a distanza non è misurato. Molte hanno lavorato prima o dopo l’orario di lavoro per organizzarsi con i colleghi, per apprendere l’uso delle tecnologie, per cercare di tenere testa anche agli impegni dei vari familiari, didattica a distanza in testa. Il tempo non solo aumenta, si confonde: non c’è più un tempo fuori del lavoro”.

Infine, conclude la ricercatrice, “essere a casa espone le donne a un’aspettativa di riattribuzione tradizionale di compiti e lavori non visti, domestici e di cura. Per quanto riguarda la condivisione dei carichi familiari, abbiamo distinto tre tipi di soluzioni: quelle a-conflittuali che hanno preso su di sé gran parte delle cose da fare, chiedendo di volta in volta “un aiuto”; quelle che hanno approfittato della quarantena per riorganizzare e ridistribuire il lavoro necessario a chi abita con loro; quelle che hanno potuto contare di atteggiamenti fortemente collaborativi dei compagni”.

Tutte le intervistate hanno constatato come il risparmio di tempo nello spostamento da casa al lavoro sia un elemento importante; però, l’andirivieni casa – lavoro è anche tempo guadagnato perché è tempo di ricomposizione, di pensiero. Tra gli aspetti negativi dello smart working al primo posto c’è la mancanza di socialità, sia a livello di collaborazioni in gruppi di lavoro, sia nell’assicurare serendipità. L’uso del tempo è accelerato e moltiplicato.

“Il pc è sempre collegato e la testa pure. Quello che è ho mal sopportato era la questione dei tempi, per quanto organizzata e produttiva: io ho mangiato con la video conferenza sul tavolino, finiva il tuo tempo teorico però continuavi, lavori e fai, il tempo di lavoro dilatato e sovrapposto, nessun tempo per sé”, dice una lavoratrice. “Il diritto alla disconnessione lo possiamo pretendere ma siamo noi che rispondiamo sempre. Ormai teniamo sempre il telefono acceso”, aggiunge un’altra. Continua una terza: “Alla fine della giornata ti sembra di non aver più tempo per te, e ti senti meno libero. C’è un tempo fuori dal lavoro che viene a mancare. E per le donne è un casino”. Non solo: “Se mi veniva qualcosa in mente dopo cena, lo facevo subito per paura di dimenticarlo. Quindi poi alla fine ci sono stati dei momenti eccessivamente fuori orario”.

Altre testimonianze dal ‘fronte’ “La parte più difficile è la solitudine, noi lavoriamo in équipe e ci confrontiamo parecchio. Il contatto quotidiano con la collega e con tutti gli altri che possono aiutarmi ad occuparmi di un utente diventa più difficile. Io mi occupo di politiche attive e ho bisogno in tanti momenti di andare in un’altra stanza e chiedere un aiuto. Va detto che è stato un periodo pieno di problemi: ho tante colleghe che non hanno retto questa solitudine e questo isolamento”.

“Ritrovarsi a lavorare da sola in casa con la gatta è stato molto traumatico. Non avevo la fortuna di avere una tribù intorno, siamo io e mia figlia, e mi sono trovata da sola, sola, con questo smart working e con questo magone e infatti sono andata in depressione. La prima cosa che ho fatto quando è finito il lockdown sono andata dalla psicologa che mi ha mandato dalla psichiatra e sono sotto psicofarmaci ora. Sto meglio e tutto ma diciamo che lo smart working non è stata la migliore scelta della mia vita”.

“Io vivo da sola, sono single, divorziata, ho una mamma anziana da accudire, con la 104, che però non vive con me, quindi per me la prospettiva di lavorare da casa è stata uno stress nonostante io abbia cercato di fare le cose come sempre, come quando andavo a lavoro, alzarmi, sistemarmi, truccarmi…”.

“Non ci sono momenti di compensazione. Non c’è un tragitto in cui fai altro. Io ho viaggiato 24 anni in tutta la provincia ma quello era un tempo per me, ascoltavo la radio, pensavo, mi piaceva. Poi gli ambienti di lavoro sono uno spazio di comunicazione con gli altri. Abbiamo lavorato tanti anni a sistemare gli spazi della scuola per organizzare una comunità che apprende, e poi alla fine abbiamo acceso i computer e preteso che una voce da uno schermo potesse far apprendere o insegnare qualcosa”.

Ci sono stati anche aspetti positivi, opportunità. “Abbiamo lavorato molto di più e per certi aspetti lavorato meglio. Siamo rimasti in pochi a lavorare negli uffici della pubblica amministrazione, e molti lavorano facendo tante cose insieme. Stando a casa molti hanno potuto portarsi avanti nel lavoro. Ora però bisogna che si faccia una regolamentazione specifica, ma risultati ce ne sono stati”, spiega una lavoratrice. Un’altra: “Giudizio sostanzialmente positivo sullo smart working, una potenzialità da governare. Non lo farei sempre perché limita la socialità, la condivisione in un posto di lavoro”. Dice una sindacalista: “La mia potenzialità come sindacalista è cresciuta a livello nazionale, perché posso partecipare a un sacco di commissioni, la digitalizzazione mi permette la relazione sindacale. La relazione empatica, quella no. Ma la relazione di lavoro è veramente un upgrade, anzi una soluzione che abbatte le barriere”. Infine, un’altra lavoratrice: “Io non sono stata in particolare difficoltà. Visto l’esperienza dei primi giorni ho cominciato a lavorare sull’organizzazione e a renderla tale che non impattasse negativamente sulla cosa in cui credevo: difesa del tempo-vita, e alla fine sono riuscita a organizzarmi in maniera proficua”.

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