Covid, Aur: ha ampliato le diseguaglianze

Il covid ha effetti in particolare sulla popolazione anziana, dunque non va a incidere più di tanto sulla forza lavoro. La pandemia si sta comportando come quelle più recenti, sta cioè creando maggiori diseguaglianze a livello reddituale e così sarà per almeno cinque anni. Lo fa sapere l’Aur nel suo studio.

Il coronavirus sta mettendo in ginocchio il nostro sistema sanitario e sta causando uno shock economico senza precedenti dal secondo dopoguerra. Durante il primo lockdown, le misure imposte per contenere il virus, hanno generato un rapido calo degli occupati e delle ore lavorate, la riduzione di stipendi e salari, una contrazione dei consumi, la chiusura per sempre di alcune attività economiche, l’aria di incertezza che ha invaso produttori e consumatori, più in generale la modifica di alcuni modelli di domanda. Tutti fenomeni che, in presenza di misure governative di sostegno al reddito diverse a seconda del tipo di attività, hanno creato diseguaglianze e disomogeneità nelle distribuzione dei redditi stessi. Si sono accentuale le disuguaglianze sociali, insomma.

La mortalità del covid, in Italia, è stata più alta su chi possedeva titoli di studio bassi e aveva condizioni economiche peggiori. Lo dice l’ Istat. Soprattutto in relazione alla seconda variabile, si associa un’insufficiente attenzione alle cure mediche e alla prevenzione sanitaria.

Dal punto di vista lavorativo, le differenze riguardano in primo luogo le attività con meno esposizione al contagio. Ma non solo. Infatti, settori più o meno colpiti dalla crisi, categorie lavorative diversamente fragili hanno accentuato ulteriormente le diseguaglianze già esistenti oppure hanno generato vulnerabilità, anche nella middle class lavorativa. I dipendenti a tempo determinato del settore privato a cui non è stato rinnovato il contratto, per esempio, oppure alcuni autonomi, compresi i professionisti, che hanno visto drasticamente ridursi il reddito, i lavoratori dell’economia informale che sono diventati all’improvviso a rischio povertà o poveri.

Così come per la grande crisi finanziaria del 2008, i più tutelati sono stati i pensionati e i dipendenti pubblici, questi ultimi per la sicurezza contrattuale e sanitaria (hanno potuto lavorare da remoto o non lavorare). I lavori non manuali, dunque quelli impiegatizi, hanno subito meno ripercussioni, avendo potuto agire in smart working. Una situazione che, però, ha svantaggiato di nuovo i soggetti economicamente meno forti, che hanno dovuto condividere spazi abitativi inadeguati e in condizioni di promiscuità.

Le conseguenze principali, dunque, si sono avute sui lavoratori indipendenti e su quelli con contratti a termine. Si registra il 15 per cento di soggetti che mediamente hanno dichiarato un dimezzamento del reddito familiare durante il lockdown, ma si sale al 27 per cento per i dipendenti a termine e al 36 per cento tra gli autonomi.

In Umbria, la fase di sospensione delle attività considerate maggiormente a rischio di contagio ha riguardato 119 mila unità, un terzo del totale, il 68 per cento lavoratori dipendenti e il 32 per cento autonomi. La chiusura temporanea ha colpito di più questi ultimi, interessati per il 50 per cento da provvedimenti di sospensione, rispetto ai dipendenti, coinvolti per il 30 per cento. Tra gli occupati, generi ed età hanno ampliato ulteriormente squilibri già esistenti. Donne e giovani sono stati i soggetti più fragili. Per le donne, in particolare, la mancata proroga dei contratti a termine ha pesato eccome; per i giovani, il rallentamento di nuove assunzioni. Ma anche i contratti temporanei non rinnovati. Mancato lavoro significa mancato accantonamento previdenziale, che è andato ad aggravare lo stato di marginalità di una generazione già ampiamente discriminata.

In Umbria, gli occupati con meno di 35 anni, impiegati in settori considerati ad alto rischio economico, sono il 18,5 per cento contro il 12,8 per cento dei 35-55enni e il 9,6 per cento degli ultra cinquantacinquenni. La concentrazione femminile è del 23 per cento nei settori ad alto e a medio-alto rischio (contro il 37 per cento degli uomini), sale al 41 per cento (contro il 30 per cento dei maschi) nei settori meno penalizzati o in espansione. In questo scenario, proprio le donne risultano essere meno a rischio. È dovuto al fatto che l’occupazione umbra è più concentrata nel comparto pubblico (sanità e istruzione), più femminilizzata e a bassa rischiosità economica.

L’Aur parla infine dei più piccoli, coloro che hanno dovuto imparare la didattica a distanza. Questa pratica rischia di mettere a repentaglio il tentativo dell’istruzione pubblica di fungere da equalizzatore sociale: accentua infatti gli svantaggi degli studenti con meno possibilità economiche e sociali. Senza dimenticare i bambini e i ragazzi con disabilità, privati della mediazione del sostegno dell’insegnante e dell’interazione con i pari. Un’altra misura di contrasto della pandemia, quindi, ha finito per agire in maniera iniqua.

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