Covid-19: sarà falsa crisi? Dipende da noi, non solo dal vaccino – L’Editoriale

Claudia Cardinale e Burt Lancaster in una delle scene più famose del film di Luchino Visconti "Il Gattopardo" (1963), tratto dall'omonimo tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Maurizio Lombardi (Ph Guido Picchio)

Che fine hanno fatto quei coach che riempivano le aule delle Business School di tutto il mondo, sempre intenti a disegnare sulle lavagnette a fogli mobili la parola “crisi”, lodandone l’ambivalente significato cinese “crisi/opportunità”?

E i loro discepoli, manager e imprenditori? Quelli che prendevano appunti e, dopo il secondo coffee break, telefonavano gasatissimi ai propri collaboratori in azienda urlando loro il bartaliano “è tutto sbagliato, è tutto da rifare” o il più americano “quando tutto è perduto tutto è possibile”?

Spariti.

Forse anche perché, in realtà, nel termine cinese non c’è traccia del concetto di “opportunità”, bensì ci si limita all’ambivalenza “pericolo/momento cruciale”, senza peraltro offrire elementi di positività e garanzie sul buon esito della situazione.

Insomma, neanche i cinesi, autori dell’ideogramma dal duplice significato, sono convinti del fatto che non tutte le crisi abbiamo necessariamente un lieto fine.

Il perché è semplice: una crisi vera e propria, come quella “pandeconomica” che stiamo vivendo, non si supera in maniera naturale o affidandoci solo ai tecnocrati, ma richiede qualità individuali spesso assopite da tempo, quali consapevolezza del “momento cruciale”, senso di responsabilità, cioè capacità di risposta, e soprattutto coraggio delle scelte.

In definitiva, per puntare al buon esito della crisi è richiesto un nostro ruolo attivo come persone, e quindi, decisivo per un cambiamento che segni un solco profondo tra il “prima” e il “dopo”.

Altrimenti saremo in presenza di una “falsa” crisi, una falsa ripartenza, il classico scenario gattopardesco ove “tutto deve cambiare perché tutto resti come prima”: il nostro lavoro e le nostre abitudini, i nostri stili di vita ed il nostro modo di rapportarci con gli altri.

Ecco allora il primo pericolo: pensare che tutto accada in maniera scontata o, come in questo caso, dipenda dalla scoperta del vaccino.

Ed è un pericolo latente ma molto concreto, specie se si assiste alle migliaia di webinair che stanno intasando le nostre giornate, mezze piene di mezzo-isolamento, ove spesso si cerca di trasformare il freddo concetto “crisi/opportunità” nel più romantico “niente sarà più come prima”.

Sicuramente sempre meglio dei mielosi cantori de “il cosa al tempo del coronavirus”, dove il “cosa” è sostituibile con “amore”, “lavoro”, “aperitivo” e così via, condivisi sui profili social di leoni da tastiera, oggi relegati in gabbia tra le mura domestiche e non per questo meno aggressivi.

Ma siamo sicuri che valga la pena ancora ragionare con schemi logici tardo-novecenteschi, quando la saggezza cinese modello “yin e yang”, “crisi-opportunità”, affascinava i salotti benpensanti del Vecchio Occidente ricchi di gattopardeschi Principi di Salina?

O forse ci siamo un pò troppo innamorati di un falso concetto di crisi (e di conseguenza di un falso concetto di opportunità), al punto tale che quelle che noi tutti abbiamo ritenuto fossero “crisi” non siano state poi cosi “realmente critiche”, tali cioè da farci diventare qualcosa di nuovo e chiudere definitivamente col passato?

Eppure ne abbiamo vissute di quelle fratture, quasi sempre associate ad eventi catastrofici, che hanno segnato solchi profondi allo scorrere naturale della nostra vita, sociale e professionale, e che ci hanno dato l’illusione di un “ieri che non c’è più definitivamente”.

Ma era tutto un’illusione, e non ce n’eravamo accorti, perché – e ne è la prova – continuiamo ad essere gli stessi di ieri.

La generale riluttanza a mettere il naso più in là della nostra brevissima esperienza di vita, ci limita ad elencarne solo alcune di queste presunte crisi, e solo quelle ovviamente più recenti.

Pensiamo all’11 settembre.

Ognuno di noi ricorda dov’era quel maledetto giorno e le immagini degli aerei che si schiantavano su grattaceli ed altri obiettivi, mietendo vittime innocenti, colpendo al cuore i simboli dell’Occidente e la sua bandiera più rappresentativa, gli Stati Uniti d’America. Poi le guerre successive, le uccisioni dei terroristi più pericolosi, le restrizioni alla nostra libertà di viaggiare, la paura.

Questo evento, che avrebbe dovuto cambiare per sempre le nostre vite, aprendoci ad un mondo più libero, sicuro e orfano del terrore, è stato sempre visto come una frattura tra un “prima” e un “dopo”, un simbolo macabro di una crisi che ci avrebbe reso tutti diversi dal “prima” e si sarebbe trasformata nello “yang” dell’opportunità.

Eppure, le guerre che hanno seguito l’11 settembre non hanno risolto il problema del terrorismo, anzi lo hanno recapitato dentro le nostre città europee, nel cuore della nostra vita quotidiana, con camion e auto che si lanciavano sulle folle, accoltellatori e kamikaze che facevano irruzione in luoghi più rappresentativi della nostra vita quotidiana da Occidentali.

Idem per i viaggi: non abbiamo cambiato le nostre abitudini a viaggiare, ci siamo adattati alle misure di sicurezza ed abbiamo ripreso a girare il mondo forse più di prima, proprio come volevano i tanti Principi di Salina.

Insomma: dalle primissime convinzioni che il crollo delle Torri Gemelle ci avrebbe reso diversi, ci siamo dovuti ricredere e considerare che le opportunità che seguirono, scaturite da episodi tragici, non fossero mai state colte in pieno.

E ancora oggi inconsapevolmente, tutti noi siamo più che convinti del fatto che siamo gli stessi di prima e, se possibile, in molti casi, peggiori (non sta a me fare la classifica dei mali, ma basti pensare alle guerre, al terrorismo e all’immigrazione, fenomeni ancora presenti e sempre più frequenti).

Quindi, in altre parole, domandiamoci: l’11 settembre – e quello che ne seguì – fu vera crisi, intesa nel senso di potersi poi trasformare in opportunità per cambiare?

Stessa sorte per l’altra “crisi” che ricordiamo come tale perché vissuta in prima persona: chiamatela come volete – Lehman Brothers, Finanziaria, Subprime, Mercato Immobiliare -, ma quella del 2008 ha sconvolto le nostre vite come nessun’altra crisi economica dal 1929 (che, non avendola vissuta se non nelle immagini in bianco e nero, poteva contare ben poco, se non come lettori e appassionati di storia).

Milioni di posti di lavoro persi, risparmi bruciati, famiglie divenute povere in meno di 24 ore, aziende e attività chiuse dall’oggi al domani, benessere sociale sconvolto dal calo dei consumi e da una crisi di liquidità senza precedenti.

Eppure, a distanza di pochissimi anni e nonostante che molti suoi effetti siano ancora in atto, abbiamo ripreso a giocare in borsa, ad investire in immobili, a produrre beni e servizi allo stesso modo di prima, “consumando” in pieno stile da società del benessere, inquinando peggio di prima, facendo più debiti di prima e così via.

Possiamo dire, senza paura di essere smentiti, di aver cambiato stile di vita, e che oggi siamo diversi – e non solo per un fatto anagrafico – dal 2001 o dal 2008?

Furono tutte “vere” crisi quelle generate da quegli eventi sconvolgenti, su cui ancora si producono film, trasmissioni e Serie TV, articoli, paragoni da talk show della sera con quella attuale?

In altre parole: possiamo davvero dire con certezza che ci sia stato per noi un “prima” e un “dopo”, una vera crisi a cui è seguita una altrettanto vera opportunità, e che siamo davvero cambiati rispetto al passato, che siamo cioè davvero “nuovi”?

Viste così, le due più recenti, assomiglierebbero più ad occasioni perdute o crisi irrisolte, considerato che, per alcuni aspetti, sono ancora in corso, ma sicuramente sono “false” se non hanno prodotto quello scatto decisivo per cambiare.

Ma questo vizio gattopardesco non è riservato solo a noi contemporanei, perché di esempi di false crisi e false ripartenze ne sono pieni i libri di storia.

Vorrei ricordarne una per tutte, il “Sacco di Roma” del 6 maggio 1527, quando i Lanzichenecchi – tedeschi, protestanti e mercenari mal pagati – scesero nel cuore della Cristianità saccheggiando, uccidendo oltre 20mila innocenti e diffondendo la peste che decimò ulteriormente la popolazione.

Fu un fatto traumatico, paragonabile allora all’altro celeberrimo sacco della città eterna, quello del 24 agosto 410 perpetrato dai Visigoti: lo stesso Sant’Agostino lesse l’evento come un segno divino dell’imminente fine del mondo e fu ricordato per generazioni come una sciagura epocale.

La caduta del mito di Roma e la resa di Papa Clemente VII agli eserciti stranieri, segnarono la fine del vecchio assetto europeo e la fine dell’egemonia, ideologica e culturale, dell’Italia, che nonostante fosse divisa in “statarelli” fu culla del Rinascimento e pilastro di quell’Europa che tutti oggi conosciamo.

La nostra Penisola – per secoli poco più di una “espressione geografica” – sarebbe divenuta di lì a poco terra di conquista per mercenari ed eserciti stranieri fino al Risorgimento e alla sua Unità, un processo, per molti versi, ancora in atto.

Dopo quell’evento, lontanissimo nel tempo, i nostri “italiani” dei secoli a venire furono costretti a subire un lento e inesorabile declino, maturando via via un concetto di Patria ben presente nelle tradizioni e nei simboli di un passato glorioso, concetto che ebbe il suo compimento nell’Unità (che, guarda caso, ancora molti non ritengono un processo compiuto).

Da anni ci siamo abituati – forse troppo – a credere ai lunghi sermoni sul secondo Rinascimento, sulle bellezze artistiche di un Paese bello, sul nostro primato in molti settori della creatività artigianale e industriale, su tutto ciò in cui primeggiamo nel mondo e che spesso ci fa dimenticare l’orgoglio di essere italiani, salvo poi arrabbiarci quando ci sfottono dall’estero.

E’ l’abitudine a pensare di poter vivere a lungo con un passato che spesso non ci meritiamo, se non per il fatto di condividere la nazionalità con scienziati, poeti, Santi e navigatori: come se tutto ciò ci appartenesse solo per la fortuna di averlo ereditato, senza alcun merito e senza consapevolezza e responsabilità.

Poi ci adagiamo sulle subdole nostalgie di questi primati perduti, soffocando sul nascere il desiderio di cambiare facendo tesoro delle crisi, per trasformarle in autentiche opportunità, essere diversi da quelli di prima e immaginare davvero un “dopo” migliore.

Prima di attendere in maniera passiva l’avvento di un nuovo Rinascimento e meritarci ciò che di bello ci ha trasmesso il nostro passato, partendo proprio da questa ennesima crisi, potremmo fare subito alcune cose.

Innanzitutto, dovremmo sforzarci di superare lo shock emotivo che evocano le immagini che segnano ogni crisi: l’aereo che si schianta sulle Torri, gli operatori di Borsa distrutti dopo il crollo dei titoli e, non meno devastanti per l’epoca, i dipinti che raffiguravano le razzie dei Lanzichenecchi.

Ne avremo delle altre anche per il Covid-19, come la fila dei camion militari con le bare dei morti negli ospedali lombardi o l’infermiera che dorme stremata sulla tastiera del suo computer.

Superare lo shock – che non vuol dire dimenticare – è il primo passo verso la consapevolezza e la responsabilità di cambiare e far fronte alle inevitabili conseguenze economiche, politiche, sociali, psicologiche e chi più ne ha e più ne metta, della caduta di Roma mezzo millennio fa, così come quelle delle Torri e delle Borse, fino alla “pandeconomia” di oggi.

L’invito a tutti noi, che la storia e non solo quella recente, ci riserva, è quello di non scivolare, con le conseguenze determinate dal Covid-19, nel novero delle “opportunità” perse.

Perché il Covid-19 stesso – come ogni crisi di qualsiasi tipo essa sia – una volta superato lo shock iniziale, ci suggerisce alcune mosse da fare subito, a livello individuale e collettivo, personale e istituzionale.

Personalmente ne colgo una come prioritaria: abbracciare un’economia green, che tenga conto dell’impatto delle nostre azioni sul territorio che ci ospita, e che dialoghi con le altre sue parole chiave, e cioè sviluppo sostenibile e responsabilità sociale, come individui, amministratori pubblici, imprenditori e professionisti.

Un concetto “green”, lontanissimo dai salotti dei finti ambientalismi, e che va declinato anche nei nuovi modi di relazionarsi con gli altri, per ascoltare di più e parlare di meno, per avere più forte la consapevolezza delle nostre abilità e ricchezze che ci hanno tramandato, quelle cose che avevamo trascurato ma che ci sono enormemente mancate in questi giorni di isolamento, forse più di aperitivi e cene, o di vacanze e auto di lusso.

Un “green” che deve puntare al chilometro zero della burocrazia, vera nemica dello sviluppo e foriera di intenti malavitosi e criminali, alle capacità di far crescere le nuove generazioni in un ambiente sano e ricco di potenzialità, al rispetto della natura partendo proprio dalla cura delle nostre città e di ciò che le circonda, che va vissuto e non solo “consumato”.

Un “green” che non attenda passivamente la scoperta del vaccino, e che ci salvi subito dalle tentazioni di adagiarsi su un passato che non passa mai, che ci spinga a cambiare davvero senza continuare a fare finta che tutto cambi.

Solo così avremo la certezza che quando il Covid-19 passerà non saremo più costretti a dirci: “Ma fu vera crisi?”

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