Il lockdown della memoria che dovremmo evitare – L’Editoriale

Maurizio LombardiC’è un virus tutto italico che invade i nostri pensieri: l’uso parossistico di termini stranieri.

Spesso, infatti, quando non siamo in grado di definire con esattezza una situazione ricorriamo a termini presi in prestito da altre lingue.

E questo per un malcelato senso di inferiorità esterofila, mischiato con una perfida insicurezza nel descrivere chiaramente fenomeni nuovi, che difficilmente si lasciano ingabbiare in parole precise e dal significato univoco.

E’ il caso di lockdown, un termine usato per definire al meglio l’odioso, quanto necessario, concetto dell’iorestoacasa, quel precetto divenuto in brevissimo tempo un sorta di “dovere morale” per contribuire, anche individualmente, a sconfiggere il virus assassino puntando sul distanziamento.

Lockdown se ne stava tranquillo nella sua definizione originaria di isolamento e confinamento,  quando i legislatori dei Paesi coinvolti dal Covid-19, nell’affrontare l’emergenza sanitaria e per tutelare quella economica che ne dovrebbe seguire, lo hanno liberato dalle gabbie concettuali (non solo ideali ma anche fisiche) dov’era relegato dai tempi del Conte di Montecristo.

Il “tutti a casa” si è trasformato anche in un “tutto chiuso”, ed il lockdown ha assunto il ruolo di primissimo piano accanto all’altra keyword del momento, distanziamento.

Ora è quasi di famiglia, una parola che mette d’accordo generazioni differenti e classi sociali distanti, un pò come furono “inflazione” negli anni Settanta, “qualità” negli anni Ottanta, “Made in Italy” nei Novanta e così via.

Negozi, uffici, fabbriche, scuole in lockdown.

Mentre i servizi di prima necessità, tra cui soprattutto cura della salute, sicurezza e trasporti, oltre a tutta la filiera produttiva e dei servizi ad essi legati, in lockdown parziale o regolamentato.

Insomma, tutto o quasi è in lockdown, e non possiamo fare a meno di non parlarne, almeno quanto del distanziamento, anche se al “fisico” abbiamo sostituito quello “digitale”.

E allora: così come il distanziamento sociale, imposto per decreto legge, ha avuto conseguenze sul lato emotivo e razionale, anche il lockdown fisico è destinato ad assumere connotati immateriali e non per questo meno profondi, che vanno decisamente al di là del semplice “non uscire di casa” o del “horroresco” “non aprire quella porta” (di casa, del negozio o della fabbrica).

Lo stare rin-chiusi o l’aprire attività in sicurezza e nel rispetto delle regole, ci stanno insegnando, non solo a riscoprire vecchie abitudini come, ad esempio, la lettura o ad impararne delle nuove, come fare la fila, ma anche a stabilire l’importanza di riflettere prima di agire, di informarsi prima di scegliere, di non giudicare prima di conoscere.

Ma attenzione, non è la celebrazione assoluta della lentezza, che in tempi di digitalizzazione della vita e di delirio social-internettiano ci sembra un pò da salotto ottocentesco.

Al contrario, è un termine che rende necessario informarsi (in fretta) per poi ragionare (con più calma) e poi agire (ancora più in fretta): acquisire rapidamente informazioni, patrimonializzarle e manipolarle in base alle nostre predisposizioni ed ai nostri interessi, e poi scaricarle a terra traducendole in azioni, strategie e operazioni pratiche.

Tre fasi per un nuovo e inedito schema logico a cui dovremmo presto abituarci per non soccombere nella giungla informativa e morire nel cosiddetto “Far Web” selvaggio e dannoso.

E questo schema logico è anche il risultato più intimo del lockdown: sembra quasi un paradosso come questa parola possa “aprirci” al nuovo nonostante indichi letteralmente il contrario.

Eppure stiamo mutando le nostre (pessime) abitudini, quelle che ci facevano chiudere davvero dentro i nostri pregiudizi, che ci spingevano ad innamorarci ciecamente degli slogan, a restare in pieno comfort nella superficie delle cose, a preferire quelle che ci venivano somministrate, più o meno subdolamente, dal maitre a penser del momento via Facebook o Instagram.

Il tandem lockdown-distanziamento si sta rivelando una miscela esplosiva per il nostro “dopo”: perché se il Covid-19 non farà finire il mondo, sicuramente sta già facendo finire “un” mondo.

Un mondo disegnato di veri e nocivi lockdown.

Domani (tra poco) saremo più capaci di usare un lockdown adeguato alle informazioni che ci giungono via internet da fonti poco attendibili e non autorevoli, adottando i criteri del vero e del falso, in luogo esclusivo di quello dell’utile “per me e in questo momento”.

Saremo capaci di giudicare la qualità dei contenuti delle informazioni che ci giungono alla velocità supersonica di internet e popolano i nostri device, contenuti originali che ci fanno interagire con persone e luoghi distanti e pesano come un macigno nella nostra vita e nelle nostre scelte.

Saremo più capaci di godere della bellezza autentica dei prodotti che acquisteremo e dei servizi che adopereremo, una bellezza razionale da condividere in luogo dell’idolatria superficiale verso un esibizionismo puramente estetico.

Saremo più capaci di scegliere di lavorare con e per aziende ed acquistare loro prodotti e servizi che perseguono principi legati alla sostenibilità ambientale e al rispetto per le persone, in luogo delle corse sfrenate da “black friday” verso il profitto avulso dal senso di comunità e dal benessere sociale.

Saremo, in una parola troppo spesso abusata, più responsabili, perché forse un’altra keyword che sta crescendo in reputazione da mesi sarà sicuramente “responsabilità”, intesa come capacità a rispondere a determinare sollecitazioni esterne ed assumersi consapevolmente le conseguenze di queste nostre risposte.

Tutto ciò non sono solo dei sanissimi principi di imprenditori, professionisti e di persone perbene, ma concrete realtà che stanno già disegnando i contorni del mondo che è già intorno a noi e che ci migliorerà.

Ma ad una condizione.

Che non perdiamo mai di vista e si sottovalutino gli errori che ci hanno costretto a preferire un dannosissimo lockdown della memoria.

info@corrieredelleconomia.it

Exit mobile version